Tevere...

di Giangabriele Carloni

A sentire questo nome la maggior parte della gente pensa alla storia romana, cui questo fiume è indissolubilmente legato. Altri, quelli che ci abitano più vicino, pensano al corso d'acqua, anche se magari l’hanno visto solo buttando un’occhiata distratta da un ponte.

Per me non è così!

Ho visto il Tevere la prima volta dai finestrini del treno quando andavo ad Assisi a trovare i nonni. In quel periodo (1956-57) i viaggi erano, per i bimbi, una favola meravigliosa; non erano viziati da automobili, televisioni e compagnia bella; i cartoni animati uscivano una volta l’anno, a Natale; in compenso li faceva Walt Disney non il solito pizza&fichi giapponese.

E quindi i viaggi, in treno o no, erano un'avventura eccezionale, vissuta tutta con gli occhi spalancati sul paesaggio che fuggiva.

Ma torniamo al fiume...

In realtà la ferrovia viaggiava vicino al Tevere solo da Roma ad Orte, ma per me, che allora abitavo a Salerno, questo fiume grande e verde appariva fantastico e, pur avendo una paura fottuta del rumore che faceva il treno passando sui ponti metallici, non mancavo di stare col naso attaccato al finestrino tutte le volte che facevo quel tratto. Un po’ di anni dopo, nel ’63, fummo trasferiti a Perugia e mio padre, sempre indaffarato, mi affidò a due suoi amici per insegnarmi i primi rudimenti di pesca. Fu così che sotto la guida del "Bigio" e di "Leone" divenni un pierin pescatore. Ma quando mi portavano a fare esperienza su piccoli fiumi della zona (la Caina, canale emissario del lago Trasimeno o il Nestore) mi accennavano di tanto in tanto al Tevere.

Grande, profondo, dove ci volevano canne da "almeno 5 metri". E mentre pescavo lasche, barbetti e qualche persico-sole pensavo a questo fiume da sogno abitato da pesci grandi dieci volte quelli che prendevo normalmente. Finalmente, una mattina d’estate, il Bigio mi portò a pesca sotto Ponte San Giovanni. Che spettacolo favoloso! Un fiume grande e largo, dove si pescava senza paura di intrecciare la lenza a qualche albero e dove i pesci erano veramente molto più grandi di quelli soliti. Ad un certo punto, per portarci in un punto più favorevole, lo attraversammo pure. Ricordo ancora la spinta della corrente e le pietre scivolose.

Di quel giorno lontano mi sono sempre rimaste impresse due cose, che purtroppo sono quelle che oggi più mi rattristano guardando il Tevere di oggi.

La prima è relativa alla pulizia delle rive.

Nel ’64 ancora non c’era stata l’invasione della plastica, e per quanto il fiume non fosse trattato con molto riguardo, tutto il materiale che vi finiva era biodegradabile e quindi i residui di legno, ferro, cartone sparivano in breve tempo. Le bottiglie di vetro poi avevano un loro valore; l’acqua minerale esisteva solo con i vuoti a rendere, la birra e le bibite pure. Frigo, lavatrici, auto, ecc. erano ancora oggetti di lusso e pensare di trovarli gettati nel fiume era pura fantasia. Tutto questo faceva sì che l’ambiente apparisse incontaminato.

La seconda era il tipo di fauna ittica. In Umbria i pesci che si pescavano nei fiumi erano, secondo il criterio locale, solo di 5 tipi: la trota, l’anguilla, il barbo, la tinca, la carpa, ovvero i pesci con una ben precisa identità. Tutti gli altri venivano genericamente chiamate "lasche" o "laschine", secondo la dimensione. Di questo gruppo facevano parte oltre la "lasca" vera e propria, tutta la minutaglia.

Ma già allora, cominciavano ad arrivare pesci da tutti gli angoli del globo e iniziavano semine indiscriminate di tutte le razze ittiche possibili; oltre ai già presenti persico sole e gambusia, arrivarono: il lucioperca, il pesce-gatto, il persico-trota e via discorrendo fino al siluro dei giorni nostri con il risultato che la fauna ittica cominciò a cambiare anno dopo anno nel tentativo di ristabilire un suo equilibrio fra le varie specie.

L’habitat di allora però è bello che andato, pur avendo, le specie autoctone, dimostrato capacità di resistenza a dir poco insperate.

Nel ’66 fummo trasferiti a Benevento e quindi tornai a vedere il Tevere per un po’ solo di passaggio. Ma nel ’72 ci stabilimmo definitivamente a nord di Roma, e da allora la mia conoscenza del fiume si fece via via più dettagliata.

All’inizio non mi parve vero poter ricominciare a pescare in questo fiume così grande, e con l’arrivo delle nuove attrezzature (la pesca era in pieno boom) mi ritrovavo spesso con gli amici a "fare la passata" sui ghiaieti vicino a Passo Corese.

Venivano su dei veri e propri "cavalli" che facevano fischiare allegramente le lenze.

Accanito come tutti i pescatori, partivo con il mio fedele Motobì in giri di esplorazione fino in Umbria. E in quel periodo cominciai ad avere ben chiaro tutto il percorso del Tevere, le sue dighe, le sue portate d’acqua, il suo livello di inquinamento.

Sì! perché, nel frattempo, la civiltà dello spreco era fiorita e la plastica aveva cominciato a farla da padrona. Lungo le rive era ormai normale trovare buste, bottiglie e contenitori vari. In compenso si cominciava a cercare di mettere a freno l’inquinamento chimico, quello che arrivava dal principale affluente, la Nera, che attraversa una città industriale come Terni. Negli anni '80, grazie alla mia passione per la pesca, avevo ormai ben chiara tutta la struttura idrografica del Tevere, fino alle dighe del Reatino (Turano e Salto), ma non oltre Corbara, in quanto ricordavo che il fiume in Umbria non era particolarmente grande. Mi ero reso conto che la vita dell’ittiofauna era perlomeno complicata dalla presenza di tante dighe.

Partendo a ritroso dalla più vicina al mare, Castel Giubileo, vicino Roma, e risalendo c'erano: Nazzano, Gallese, Alviano, Corbara.

Altre dighe più piccole stavano sopra Corbara e sugli affluenti. Nessuna di queste dighe prevedeva minimamente gradinate di risalita per i pesci (che si spostano dal mare alle sorgenti e viceversa secondo i periodi). Le dighe suddette sono state tutte costruite dopo la metà del secolo scorso. Esse hanno provocato la totale alterazione del Tevere, che da fiume a carattere veloce e torrentizio è diventato, nel suo tratto medio-inferiore, una successione di laghi provocati da questi sbarramenti. Brevi tratti di corrente si trovano solo appena dopo le chiuse.

A detta di molti vecchi abitanti delle zone anche il clima ne ha risentito.

Le chiuse stesse, per la produzione di energia elettrica, rilasciano l'acqua a orari prestabiliti, per cui i pesci vivono continuamente fasi di magra e fasi di piena. Si può immaginare quanto questo sia favorevole per le specie che depongono le uova in acqua bassa.

Altro evento critico per il fiume fu il rilascio di licenze per il prelievo di ghiaia dal fiume specialmente nella zona fra Monterotondo e Poggio Mirteto.

In pratica una ditta chiedeva l’autorizzazione per scavare 10.000 metri cubi di ghiaia, poi contando sul fatto che nessuno controllava, continuava ad estrarre materiale senza limiti.

Questo ebbe altri due effetti negativi: il primo fu che il fiume divenne praticamente un canale. Tutte le isole e le rive che degradavano dolcemente sparirono. Il secondo fu che l’abbassamento del fiume causato dalle draghe che avevano scavato fin quasi sotto la diga di Nazzano, provocò durante una piena la rottura del muraglione a valle della diga stessa. Iniziarono lavori di consolidamento che protrassero fino a due anni fa a spese di Pantalone (ma è una notizia che non ebbe diffusione, forse perché allora non c’era il Gabibbo).

L'unico lato positivo fu che su due laghi provocati dagli sbarramenti (Alviano e Nazzano) vennero istituite oasi naturali di protezione per la fauna che, in effetti, oggi ospitano diversi specie di animali, specialmente uccelli, e che sono ben apprezzate dagli appassionati.

Ultima perla, infine, è stata la costruzione della grande diga di Montedoglio, poco prima che il Tevere dalla Toscana passi in Umbria. Tale diga, fatta per deviare l'acqua verso la Toscana ha causato una forte diminuzione della portata del fiume. Viene infatti "garantita" solo una portata d'acqua minima e, negli anni siccitosi come per esempio è stato il 2002, il livello del fiume è basso al punto da provocare difficoltà di navigazione anche ai kayak, fin dopo Perugia.

Ma ora vi racconto come dalla lenza passai alla canoa...

Nel 1983 mi ero convinto che, per pescare comodamente, mi sarebbe servita una barchetta. Ma non da lasciare fissa in un punto del fiume.

Una barchetta piccola, facile da trasportare sul tetto della macchina. Inoltre doveva essere leggera e andare veloce anche senza ammazzarsi di fatica. Mi venne un’idea illuminante: "la canoa !!!"

Sì, ma dove le vendevano?

Parlando con degli amici venne fuori che un tizio ad Anguillara fabbricava canoe.

Detto e fatto con un mio amico di mille avventure andai ad Anguillara dove trovai la "Olivetti Nautica". Entrai dentro e chiesi al produttore

:- Vorrei comprare una canoa, quanto costa?-:

il tizio, quasi un po’ sorpreso, mi chiese

:- Che ci devi fare con la canoa ? -:

:- Mi serve per andare a pesca.-:

:- Per andare a pesca ??!!-:

:- Scusi, ma a che altro serve una canoa ???-:

E fu così che il tizio, Giorgio Olivetti, cominciò a raccontarci della Discesa del Tevere (la prima con buona partecipazione di gente si era tenuta l’anno prima) e dei vari raduni di canoa.

Uscii con la canoa sopra la macchina e, da quel momento, ho visto il fiume più con l’ottica del pesce che con quella del pescatore. E sono passati vent’anni.

PS Piccolo post-scriptum ad uso dei neofiti per farli essere sempre, comunque e dovunque prudenti: io e l’amico cui ho accennato prima, collaudammo la canoa un 25 marzo gelido, che aveva deciso di far tornare l'inverno nonostante fosse primavera. La cima delle montagne sopra Poggio Mirteto era imbiancata di neve. Avevamo appena mangiato a crepapelle per festeggiare il mio 31° compleanno e decidemmo di andare a provare il nuovo mezzo. Varammo l'imbarcazione a Poggio Mirteto scalo, e via veloci in mezzo al fiume.

:- Forte !-:

:- Ammazza se fila !!! -:

:- E pare pure stabile...-:

PATASPLASH !!! Ci ritrovammo in mezzo al fiume gelato, con dieci metri almeno di fondo sotto di noi, la canoa senza galleggianti che malapena stava a galla, io senza alcun salvagente e l’amico, poco pratico di nuoto, con un giubbottino di salvataggio che reggeva sì e no un paio di chili.

Onestamente, pur sapendo nuotare, pensai che non l’avrei raccontata. Invece, piano piano riuscimmo a raggiungere la riva dove ci prese un attacco di riso irrefrenabile, dopodiché montammo e ripartimmo, ma seduti sul fondo della canoa (sistema poi detto "della canoa ascellare").

Fu solo il primo dei tanti bagni nei fiumi del Centro Italia.....



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